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Immagine del redattoreJonas Marti

Gli audaci uomini del cielo

«Sono le tre e mezza. Il motore freme come un demone, il ronzio si diffonde, l’elica gira velocissima: è la partenza. Il monoplano striscia come agile farfalla sull’erba primaverile, poi grado grado si innalza sul bacino del Ceresio. Il pubblico, affascinato, applaude lungamente. Il volo è magnifico. Il monoplano a poco si abbassa: l’aviatore vuole sfiorare la Lugano sua quasi per mandarle un saluto; poi s’innalza rapidamente, costeggia il monte, domina il lago, si abbassa, sempre felicemente, e con un bellissimo volo plané atterra d’ond’era partito accolto da unanimi, insistenti, prolungati battimani».

Cominciò così, il 31 marzo del 1912, con i toni epici tratteggiati dal cronista della «Gazzetta Ticinese», l’avventura dell’aviazione luganese. Quel giorno, sulla spianata del Campo Marzio – primo e primitivo aeroporto luganese, con la sua pista d’erba – migliaia di persone si erano radunate per assistere al volo del loro concittadino trentacinquenne Attilio Maffei, «aviatore luganese puro sangue», sul suo Blériot-Gnome di 50 cavalli. Una vera e propria festa, allietata dalle note della Civica Filarmonica, che durante le spericolate evoluzioni si mise pure, solennemente, a suonare il salmo svizzero. Per l’occasione fu organizzato anche un concorso fotografico, dotato di due premi di trenta e venti franchi, in palio per le migliori immagini scattate al monoplano in azione. Più tardi, in serata, al Kursaal l’«ardito uomo del cielo», che in quella «memorabile giornata» aveva volato due volte, venne festeggiato da tutta la Lugano bene con un’entusiasmante ovazione.

Era la seconda volta che i luganesi vedevano un aeroplano volare. L’anno precedente, sempre sulla pista del Campo Marzio, era stato organizzato il primo meeting aviatorio ticinese, con un ospite speciale, l’aviatore parigino Georges Legagneaux, che per prima cosa aveva supervisionato la pista, giudicandola «un po’ piccola, ma abbastanza adatta per le evoluzioni nello spazio previsto». La due giorni, con prezzi d’entrata tra i 50 centesimi e i 5 franchi, fu un grande successo e gli organizzatori incassarono 14’814 franchi. Erano i primi voli dell’umanità – il primo, compiuto dai fratelli Wright nel 1903, risaliva a nemmeno dieci anni prima – e poter osservare un aeroplano nel cielo, agli albori del nuovo mondo, rappresentava un evento rarissimo e impressionante.

Poco più di cento anni dopo tutto è cambiato. Oggi nulla ci sorprende più, e la lunga crisi che da anni attanaglia l’aviazione ticinese, resa ancora peggiore dall’emergenza sanitaria, ha seppellito sotto cordate di imprenditori e bilanci finanziari il romanticismo aviatorio del passato: il coraggio di sfidare i cieli, andando «nell’etere a giocar, ch’è ormai conquiso», con aerei fatti di legno e tela, spinti da motori spesso meno potenti di quelli delle nostre automobili, volando all’aperto tra le nebbie e le raffiche di altitudini vertiginose. Vertiginosamente primi.



Qualche mese dopo il suo primo show, il 6 giugno del 1912 Attilio Maffei si alzò di nuovo in volo durante la processione del Corpus Domini. Il giorno dopo un quotidiano scrisse con toni entusiastici, al limite dell’esaltazione futuristica, che «mentre sfilavano per le vie luganesi i preti salmodianti, seguiti e preceduti da lunga processione, Maffei solcava le vie del cielo, stabilendo così, tra la terra e il cielo, questa antitesi superba: sulla terra gli ultimi bagliori di una civiltà che tramonta, nel cielo le primi luci di una nuova era». I fedeli non gradirono: i fogli cattolici accusarono l’aviatore di aver voluto espressamente disturbare la processione, ma dissero pure che «fra i promotori dell’aviazione ci sono anche credenti, frati, preti e persino gesuiti» e che «alla fede resero omaggio tutte le scienze e tutte le arti e renderà omaggio anche l’aviazione!».

Il 13 marzo del 1913 nei cieli sopra Lugano si udì un altro rombo. Oltre il lago, a un’altitudine vertiginosa, era improvvisamente comparso un puntino nero che stava valicando il Monte Generoso e puntava verso la città. A bordo del monoplano c’era un altro pioniere luganese, il ventottenne Pierino Primavesi, deciso a portare a termine un’eroica impresa che a quei tempi doveva sembrare al limite dell’umano: tentare il volo da Milano a Lugano. Ma a un certo punto accadde qualcosa.

Scrisse un cronista: «Molte centinaia di persone avevano, in pochi minuti, affollata tutta la riva e seguivano l’apparecchio, in attesa di vederlo entrare al Campo Marzio. Ed invece, inorridendo, lo videro d’un tratto scendere sul lago, poi scomparire nell’onda schiumante...». Quando arrivarono i primi soccorsi, non ci fu più nulla da fare. Pierino Primavesi e il suo aereo erano già stati inghiottiti dai gorghi del lago. «Solo una larga chiazza d’olio segnava, come una croce nella terra nera, la tomba dell’aviatore». Il corpo fu ripescato solo un mese dopo a 280 metri di profondità, insieme all’orologio che si era fermato all’ora dell’incidente, le 17.28.

Una vicenda che per molti anni rimase impressa nella memoria dei luganesi, ma che oggi è dimenticata: la lapide di Rivetta Tell che ricorda Pierino Primavesi, posta nel 1973, sessantesimo anniversario dalla morte, è quasi illeggibile. «I pacifici borghesi possono ben scandalizzarsi di questa sua tremenda audacia – scrisse un quotidiano – ma non hanno il diritto di giudicarlo. Perché, mentre i comuni mortali mettono in cima alla loro scala dei valori il valore “vita”, egli lo poneva ben più basso, sotto a valori come questi: ardimento su tutto e su tutti, ebrezza delle grandi velocità e del rischio improvviso, bellezza del gesto arduo, dell’atto raro e inimitabile... La Morte lo sapeva: e si rannicchiò sempre col suo sardonico sorriso sui motocicli, sulle automobili, sui canotti ch’egli pilotava. E finalmente lo ha ghermito».

Ma la tragica fine di Pierino Primavesi non tagliò le ali al fervore aviatorio, anzi. Pochi mesi dopo, per la smania di vedere un aereo volare, fu addirittura sospesa tra le proteste di alcuni deputati una seduta del Gran Consiglio a Bellinzona. La maggioranza dei parlamentari, d’accordo con il presidente, volle assistere all’atterraggio bellinzonese di Attilio Maffei che, eletto nel Partito liberale radicale, intendeva insediarsi a Palazzo delle Orsoline con una eccentrica esibizione. Quel giorno però a Bellinzona non ci arrivò. Sopra il Monte Ceneri il motore ebbe un guasto. Dopo aver urtato un albero, riuscì ad atterrare sul piano di Magadino, andando a piedi fino a Cadenazzo e telefonando a Lugano per assicurare gli amici di essere sano e salvo.

Nel novembre 1921 fu il turno di Plinio Romaneschi di Pollegio. Sopra la folla trepidante del Campo Marzio, fu il primo paracadutista a lanciarsi nel lago. Sul volantino dell’evento c’era scritto: «Due salti nel vuoto dall’aeroplano a 150 km all’ora. Durante la discesa eseguirà i suoi esercizi acrobatici: cerchio della morte, discesa a testa in basso». Si dice che il paracadute utilizzato fosse costato la modica cifra di tremila franchi di allora, un vero salasso, tanto che dopo lo show il cimelio fu esposto, ma per poterlo vedere bisognava pagare.

Poi l’epoca gloriosa degli audaci uomini del cielo finì. Il mondo aveva cominciato a correre sempre più veloce. Per le nuove esigenze del crescente settore dell’aviazione le improvvisate spianate di terra ed erba non bastarono più. Così la Sezione Luganese dell’Aero Club Svizzero nel 1935 decise di traslocare. Il Campo Marzio, testimone di quelle irripetibili imprese eroiche, fu abbandonato per il piano di Agno. La scelta non fu scontata: a contendersi il luogo per la nuova pista ci fu anche Cornaredo, dove si sarebbero dovuti rimuovere solo pochi ostacoli, come alcuni vigneti, due linee del telefono e una elettrica. Ma infine si decise per il campo di Agno, inaugurato il 27 agosto del 1938. E questa è ancora un’altra storia.



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