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  • Immagine del redattoreJonas Marti

La spagnola: quando il virus varcò le Alpi

Lugano, Piazza della Riforma, estate 1918, l’annuncio pubblicitario della Birreria Gambrinus fa così: «È ormai accertato che le bevande alcoliche – se consumate in misura limitata – sono fra i migliori rimedi preventivi contro la grippe spagnuola. Durante questi giorni di gran caldo, tutti preferiranno ai poco gustosi specifici farmaceutici una cura primaverile a base di birra fresca o vero cognac francese di primissima qualità. Trovate entrambi da noi». Negli stessi giorni una libreria-cartoleria invita, per combattere l’epidemia, a leggere libri come Cucina vegetariana, oppure La Nuova scienza di guarire, o ancora Donna Medico di Casa, splendidamente illustrato. Ma non solo: contro il virus vengono proposte sigarette a base di eucalyptus, pastiglie di chinino, dentifrici alle erbe, saponi vari e soluzioni per sciacquare la bocca… Scaltri ciarlatani di tutto il mondo unitevi! Anche cento anni fa, senza Facebook, disinformazione e falsi rimedi erano all’ordine del giorno. Tanto che, allarmato, il Dipartimento cantonale di igiene scriveva a tutti i medici ticinesi: «Le voci più fantastiche continuano a circolare nel pubblico intorno all’attuale epidemia, per cui è necessario fornire alla popolazione informazioni per quanto possibile esatte».


Fanno un po’ sorridere le fake news di allora. Eppure, fatte le dovute differenze, la situazione di cento anni fa è un po’ la stessa di oggi, con l’epidemia di coronavirus. «La più grande epidemia è quella della disinformazione», si è detto più volte nelle ultime, ansiogene, settimane. Sui social si sono rincorse bufale e falsi allarmismi. In alcuni casi l’irrazionalità ha portato addirittura all’aggressione di alcune persone con tratti asiatici, presunti portatori del virus. Ma bisogna dirlo: il numero delle vittime del nuovo COVID-19, pur essendo preoccupante, è poca cosa rispetto alle falcidie del virus dell’influenza spagnola del 1918-1920. Nel mondo uccise tra i 40 e i 50 milioni di persone, forse addirittura 100 milioni dicono alcune stime. Nella sola Svizzera, ci furono oltre due milioni di contagiati e 25mila morti. «La più grande catastrofe demografica elvetica», l’hanno definita alcuni storici. Il Ticino fu uno dei cantoni più colpiti. Ad ammalarsi fu metà della popolazione, 80mila contagiati stimati, con 925 morti totali registrati nel giugno del 1919. Nelle valli la situazione si rivelò particolarmente drammatica. A Vogorno, per fare un esempio, l’epidemia colpì 350 dei 650 abitanti. E in pochi giorni 17 malati morirono nel più completo abbandono.

Bisogna dirlo: il sistema sanitario ticinese, sottoposto a un’emergenza così grave, dimostrò tutti i suoi limiti e difetti. Il quotidiano socialista «Libera Stampa» denunciò a più riprese le condizioni in cui vivevano gli operai metallurgici di Bodio, ammalati e abbandonati a se stessi. «Mancano gli alloggi, mancano i locali, manca l’igiene. La gente è ricoverata in istalle abbandonate per stamberghe, in tuguri, in tane, in canili. Lo stesso letto serve a più persone. E famiglie dormono in una promiscuità spaventosa, indecente. Siamo entrati nella stanza di un Robbiani. Piccola, bassa, senza aria né luce. Vi dormivano tre o quattro persone ammalate di grippe. Il figlio maggiore giaceva morto sul letto» (30 agosto 1918).

Il Ticino all’alba degli anni Venti del Novecento è un territorio ben diverso da quello a cui siamo abituati oggi. È Terzo mondo, povero e sporco, regnano miseria, malnutrizione e scarsa igiene. I medici di allora parlano di bambini ricoperti dai pidocchi. L’acqua potabile è un lusso: l’80 per cento dei comuni non ha ancora un acquedotto efficiente, e gli impianti fognari sono quasi inesistenti. In un contesto così, non sorprende poi, nemmeno due decenni dopo, il grande consenso per demolire a Lugano l’intero quartiere del Sassello, dove tra i vicoli luridi imperversava invece la tubercolosi.

Come oggi in Cina, anche allora le autorità finirono sotto accusa. In particolare quelle militari, in un clima arroventato dallo sciopero generale e dalla relativa mobilitazione. Ancora una volta la denuncia arriva dal quotidiano «Libera Stampa» che, in un articolo intitolato L’indecorosa organizzazione sanitaria del nostro esercito, scrive: «Recano il Bund, la N.Z. Zeitung ed altri giornali (...) che soldati caduti ammalati di grippe spagnuola vennero lasciati negli accantonamenti sdraiati sulla paglia per 3 o 4 giorni, addosso l’un l’altro come sardine, e senza cura. Fra essi ve n’erano dei colpiti di febbre a 40 e 41 gradi; altri sputavano sangue ogni minuto» (2 agosto 1918). Senza parlare, poi, del ritorno dei soldati ticinesi dispiegati nel Giura Bernese, altro cantone particolarmente colpito dall’influenza. Quarantena? Macché. Le truppe – con ragazzi malati che a loro volta contageranno i parenti – vengono rispedite direttamente a casa. Scrive un cronista della «Gazzetta Ticinese», che i ticinesi hanno più paura dei propri soldati che degli eserciti stranieri mobilitati per la Prima guerra mondiale: «È questo il caso di dire che la popolazione ticinese non teme tanto un’invasione da parte dell’amica Nazione del Sud quanto quella del morbo spagnuolo» (1. agosto 1918).

Per cercare di arginare l’epidemia, nel luglio del 1918, il Consiglio di Stato decreta: «Sono vietati in tutto il territorio del Cantone gli spettacoli pubblici quali le rappresentazioni teatrali, cinematografiche, concerti, ecc. nonché le pubbliche riunioni, le feste popolari e campestri, ecc.». Per la prima e unica volta nella storia, il 1. agosto del 1918 in Ticino si rinuncia ai festeggiamenti. A Lugano invece tutti i funerali devono tenersi prima delle 9 del mattino, e il trasporto del defunto deve avvenire «per la via più breve da casa al cimitero». Il Vescovo ordina la disinfezione di tutte le chiese della città, mentre «è vietato sputare per terra nei locali chiusi, in carrozze e per le strade».

Oggi dobbiamo affrontare il coronavirus, ed è giusto farlo con serietà. Cento anni fa però le nostre terre furono sconvolte da un altro virus, che entrò in ogni casa, e si portò via tante, troppe persone.



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